Franco Cacace, per gli amici “Franklin”

Era il 1977, a Sant’Agata sui due golfi tutto era tranquillo. Anche troppo. Il clima a quattrocento metri d’altezza non era quello afoso di oggi, l’aria molto più fresca. Ricordo ancora il plaid ai piedi del letto nel mese di agosto con le finestre di casa rigorosamente chiuse, cosa che difficilmente potrebbe accadere in tempi più recenti.
Noi sbarbatelli villeggianti santagatesi ci portavamo dietro nei mesi estivi maglioni di lana e giacche più pesanti, perché quando partivamo con i nostri motorini dal “Bar Centrale” se non eravamo ben coperti pativamo il freddo, né più né meno come nei mesi invernali.
Tutto era tranquillo a Sant’Agata, ma un ciclone, gastronomico, stava per abbattersi sulle nostre giovani vite.
Mimì Cacace, santagatese doc, pensò bene di aprire la sua rosticceria d’asporto in una piccola strada nel centro del paese, e così le nostre tavole si arricchirono di piatti nuovi, buoni e genuini. Le nostre mamme presero il classico ”terno al lotto”, come diciamo noi a Napoli. Non dovevano più provvedere, anche nei mesi estivi, a dimenarsi fra i fornelli per figli e mariti, perché ci pensava lui, Mimì, che con la sua famiglia mise su una vera e propria macchina da guerra. Piazzò moglie e figli in rosticceria, chi in cucina, chi in sala, chi a preparare i pacchetti per l’asporto. A prezzi, poi, estremamente convenienti.

Mimì e la sua famiglia furono gli artefici di una vera e propria rivoluzione gastronomica in penisola sorrentina, chiunque poteva accedere al loro locale, si mangiava “come a casa”, nel caso di chi scrive anche meglio, e la spesa a conti fatti era anche inferiore.
Sulle nostre tavole comparirono rustici di vario tipo, arancini, crocché, melanzane fritte, calzoncini ripieni, e poi fumanti cannelloni, manicaretti, gnocchi, quando volevi rimanere fra le mura domestiche, altrimenti ti mettevi religiosamente in fila per sederti ai pochi tavoli di fortuna della “Rosticceria Mimì”.
I Cacace, oltre a essere dei gran lavoratori, erano silenziosi, discreti e riservati. Tranne uno. Franco.
Aveva già da giovanissimo una personalità debordante. Era quello che ti accoglieva con un sonoro: “Buongiorno, prego, si accomodi, cosa possiamo fare per lei, questa è casa sua!”. Contrariamente a quanto accade di solito il momento del conto era quello più atteso. Prendeva il taccuino con la mano destra e con la sinistra, con il gomito posto in posizione più alta, scriveva numeri indecifrabili, declamando il conto ad alta voce. Iniziava il suo show: addizionava, divideva, moltiplicava, sottraeva numeri senza alcuna logica, con una velocità impressionante. Tu non ci capivi nulla, però il risultato finale, che poi era quello che contava, era ampiamente soddisfacente e quindi lasciavi correre. Non ti veniva nemmeno voglia di stare lì a controllare.
Franco divenne la mascotte del paese, promuoveva il locale di famiglia anche quando al mattino lo incontravi per le vie di Sant’Agata, nei pochi momenti di pausa che si concedeva. “Oggi cannelloni, ci vediamo più tardi?”.

Aveva una memoria di ferro, stupefacente, era uno scanner vivente, registrava e ricordava tutto ciò che gli capitasse, ma ben presto veicolò tutte le straordinarie doti che aveva nel gioco d’azzardo. I cavalli erano il suo forte, ma sapeva tutto di calcio, trascorreva ore intere a leggere giornali sportivi e conosceva a memoria le formazioni di tutte le squadre. Il suo pezzo forte era ed è tuttora quella della Corea del Nord, del famigerato uno a zero che ci punì ai mondiali in Inghilterra del 1966.
Quando gliela chiedi va giù a mitraglia, Franco: “Li Chan Myung, Lim Zoong Sun, Sin Yung Kyoo, Ha Jung Won, Oh Yoon Kyung, Im Seung Hwi, Han Bong Zin, Pak Doo Ik, Pak Seung Zin, Kim Bong Hwan, Yang Sung Kook. Gli spettatori erano 19.738, ma per motivi inerenti alla privacy non mi è possibile fornire le loro generalità”.

Per anni ha fatto la spola fra la rosticceria di Sant’Agata e l’agenzia ippica di Sorrento, giocandosi tutto ciò che con il suo lavoro guadagnava, con il tempo anche di più. Nel mezzo qualche colpo di fortuna, come un “dodici” al Totocalcio da quindici milioni di lire che fece scalpore nel paese.

Il gioco lo stava rovinando al punto che nel duemila, dopo ventiquattro anni spesi nell’attività di famiglia, mollò tutto per trasferirsi in riva al mare, quattrocento metri più giù, come cameriere del suggestivo ristorante “La Conca del sogno”, nella baia di Recommone. Per l’occasione, anche per la precoce caduta dei capelli, cambiò il suo look. Il suo segno distintivo divenne una bandana colorata ben stretta alla testa. Anche in questa nuova avventura Franco riuscì a fidelizzare la clientela con il suo contagioso entusiasmo. Non erano più i villeggianti santagatesi, ma le stelle del cinema, della musica, dello spettacolo. Robert de Niro, Rod Stewart, tanto per citarne qualcuno, divennero suoi clienti.

Alla Conca del Sogno rimase nove anni, poi l’offerta dell’imprenditore caprese Roberto Russo lo convinse a trasferirsi nell’isola azzurra. All’“Edodè”, in via Camerelle, a pochi passi dal famoso albergo “Quisisana”, Franco ha contribuito al successo del locale, sempre pieno grazie anche alla sua verve.
Sono andato a salutarlo, le solite mille feste. Ha qualche ruga in più ma il sorriso è quello di sempre.
“Qui faccio il Direttore, ma sempre con la scopa in mano”. E’ raggiante, Franco, grazie anche alla moglie che nel 2004 gli ha regalato Stefania, la figlia.
“Mi sento realizzato, il ristorante va alla grande e ho comprato anche casa a Torca (piccola frazione vicino Sant’Agata) e oggi posso dire di essere un uomo felice”.
Parlando con lui, ascoltando i suoi racconti, i mille aneddoti, mi sono chiesto chissà quante storie si nascondono in queste persone che passano una vita dietro le quinte e delle quali non si saprà mai nulla. Quella di Franco, dell’amico “Franklin”, era una di quelle che meritava di essere raccontata.
Se un giorno capiterà di trovarvi a Capri non dimenticate di passare a salutarlo (oggi è al “Don Alfonso Café”, dalle parti della famosa piazzetta) e cosa più importante fatevi dire la formazione della Corea del Nord.
Mi raccomando, chiamatelo “Franklin”, forse capirà chi vi ha mandato.

 

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